Pizzo Acuto-Cresta Nord Est

Domenica 30 Gennaio siamo andati a fare una gita ai Piani di Ragnolo, da cui ho osservato una bellissima cresta, che era la cresta di Pizzo Acuto.

La cresta era talmente bella, nella luce del primo pomeriggio, che mi ero fissato per andare a farla e l’occasione è arrivata subito con la proposta da parte di mia figlia Ilaria e del suo ragazzo Edoardo, che in settimana l’aveva addirittura sorvolata con l’aereo pilotato dal padre.

Così Domenica 7 Febbraio siamo riusciti a salirla: è davvero una bella cresta ripida e con dei bellissimi affacci rocciosi sulla valle sottostante che sale verso il Fargno.

Siamo saliti per la strada che da Bolognola sale verso il rifugio e poi subito dopo il bosco abbiamo salito il pendio diretti fino alla Forcella Bassette e poi da lì abbiamo puntato verso la cresta che sale sempre più ripida. Gli ultimi salti avevano una discreta pendenza ed erano anche ghiacciati e scendere da lì sarebbe stato più difficile: quindi dalla vetta siamo scesi dal versante verso il Pizzo Tre Vescovi e poi abbiamo traversato bassi per tornare alla Forcella

L’Alpinismo di Roberto

Roberto-Iannilli-autoscatto-PlanetMountain-com
Riporto un vecchio brano di Roberto che ho sempre trovato autentico e privo di retorica.

 

Fare alpinismo è un’attività che va oltre il piacere della natura o lo sport, è un’attività che ti fa sentire vivo, che ti dà il metro preciso di chi sei, di cosa puoi fare. Sei tu e la parete, la montagna, senza “certificazioni”, compromessi, false sicurezze. In parete capisci che sei vulnerabile, che puoi farti male se sbagli e la tua attenzione diventa quasi un’applicazione della filosofia zen, dove le tue azioni devono essere precise, elaborate, affinate, mai improvvisate. In auto, per le normali strade, rischi la vita ad ogni incrocio e chissà quante volte la fatalità ti permette di scamparla per un attimo. Magari l’autobus era in ritardo mentre eri scivolato dalla tua moto, oppure arriva puntuale e ti manda al creatore. In un caso o nell’altro spesso non ce ne accorgiamo. In parete ogni momento capisci che sei vulnerabile, che un errore è teoricamente fatale. Questo ti fa sentire più vivo, ti fa capire cosa significa “esserci”, vivere fino in fondo. Ammetto, questa sensazione può portare alla “perdizione”, alla quasi dipendenza da questa emozione: sentirsi vivi. Nella vita di tutti i giorni senti che manca qualcosa, che l’emozione di vivere sul serio ha bisogno di un’altra dose di verticalità. E torni in montagna, scali cercando di trovare quello che ti manca tutti i giorni: il gusto della vita. Insomma, per me l’alpinismo è “vivere forte”, è mettersi in gioco, fare un’attività che va oltre lo sport, che ti dà la sensazione di essere speciale, anche se so che speciale non sono.

 

L’ alpinismo è un’attività in cui il “pericolo” lo senti e lo percepisci. Questa sensazione di “essere in gioco” è una delle motivazioni che ha spinto l’uomo ad andare avanti, non fermarsi su posizioni comode e sicure. E’ dentro di noi sentirci messi alla prova. L’alpinista cerca questo in modo personale, senza far rischiare ad altri questa sua necessità. Oltre a questo occorre distinguere due precisi livelli di alpinismo, quello di chi rischia davvero e quello di chi vuole solo sentirsi in gioco, rischiando in modo calcolato. La maggior parte degli alpinisti scala per puro piacere e non apprezza rischiare davvero, quindi va su vie conosciute, al di sotto del proprio limite, in zone comode, con compagni affidabili… con minimi rischi oggettivi. Per questo pareti come le Spalle, le Fiamme di Pietra …. sono affollate. Quando sei impegnato nella scalata e senti che “sei in gioco”, capisci che un errore può essere fatale, tutti i sensi sono allertati e non muovi un muscolo se non hai la certezza che è il movimento giusto, l’eventualità di un incidente è più remota che la possibilità di cadere in gabinetto e sbattere sul water. Restano i rischi oggettivi, ma appunto per questo la maggior parte degli alpinisti scala su pareti “sicure”. Solo una minoranza di “intrepidi” si avventura su pareti come il Paretone. Gli incidenti poi capitano quasi sempre su tratti facili o in discesa, al ritorno dopo la salita, appunto quando l’ allerta di sentirsi in gioco è minore. Per strada invece non percepisci il vero rischio se non quando, spesso troppo tardi, inchiodi i freni e sbatti. Viaggiamo tutti i giorni con la morte a fianco e spesso capita di assistere a soccorsi, feriti, autoambulanze. Lungo le nostre strade troviamo lapidi, fiori. Insomma, chi fa alpinismo lo sa che rischia e cerca di evitare incidenti con tutte le manovre, attrezzature e esperienza a disposizione, mentre in auto rischiamo senza sapere di farlo. In ultimo, ho 55 anni e di cose ne ho viste anche io molte, ho perso amici in parete e sulla strada asfaltata, quando vado a scalare metterò a repentaglio la mia vita ma la vivo fino in fondo.

 

L’alpinismo è una delle tante discipline che permettono di mettersi alla prova. C’ è chi traversa su funi, chi fa paracadutismo, chi pilota auto da corsa, chi moto …. Ci sono una moltitudine di attività che fanno percepire il rischio e il “gioco” è evitare di farsi male. L’ alpinismo è questo e di più, anche perché svolto in un ambiente bello come la montagna. Forse è un bisogno atavico. La nostra società vive nei confort, nelle “certificazioni”, nell’apparente sicurezza (“sicurezza” è la parola magica dei politici). Ci vacciniamo per non rischiare neppure il raffreddore. Questa “apparente” sicurezza (sottolineo apparente) non fa parte del nostro codice genetico, ancora abituato ai rischi della vita dei nostri antenati. La vita diventa routine e lo sport (semplificando) può diventare un sistema per riscoprire questo nostro bisogno di rischio (calcolato). Hanno così successo i cosiddetti “sport no-limits”, dove ci si butta con gli elastici legati ai piedi o si traversa sul baratro sospesi su una fune. Sono mode, la gente apprezza queste emozioni, ormai perse nella vita di tutti i giorni. Mode che passano, un po forzate dai media, spesso abbastanza sciocche. L’alpinismo non è una moda, da queste emozioni in modo semplice: scalando le montagne.

Tecnica di autoassicurazione in arrampicata

download.jpg

La tecnica di autoassicurazione in arrampicata è da sempre un argomento misterioso.
Non viene insegnato nei corsi e si tramanda praticamente oralmente fra scalatori. E’ uno degli argomenti che più hanno appassionato i lettori dei forum, insieme ad un altro “evergreen” come “spit si o no?”

Roberto Iannilli, semplicemente Roberto nei forum, era un grandissimo cultore dell’arrampicata in solitaria autoassicurato (da non confondere con le solitarie slegati, le cosiddette “free solo”): con questa tecnica ha fatto importanti prime ripetizioni e incredibili aperture di vie nuove. Quindi a ragione ha deciso a un certo punto di scrivere un piccolo manuale su questa tecnica che aveva poi pubblicato in riposta a un’ennesima domanda sul forum di Planet Mountain.

Mi sono imbattuto poco tempo fa in questo vecchio topic e ho deciso di pubblicare quì il suo piccolo manuale, sia per renderlo più visibile e citabile (con un link diretto), sia come omaggio a questo piccolo grande uomo che ci manca sempre di più.

Tecnica di autoassicurazione in arrampicata

di Roberto Iannilli

Tempo fa scrissi una specie di manuale sull’arrampicata in solitaria: è frutto della mia esperienza e i sistemi utilizzati sono del tutto soggettivi.
I sistemi per andare in solitaria sono vari ed ogni solitario è convinto che il suo sia quello migliore, quindi prendere le indicazioni che seguono come uno spunto, poi fate come vi pare. Solo una cosa, non dite che è colpa mia se poi vi fate male, andare in arrampicata solitaria è più pericoloso che andare in cordata.
E comunque, io non sono affatto convinto che il mio metodo (che poi non è il mio personale ma è usato da molti) sia il migliore, è soltanto il metodo che con gli anni, solitaria dopo solitaria, ho aggiornato e con il quale mi sono trovato bene.

Avvertenze iniziali

  • Si raccomanda di non arrampicare da soli, la scalata in cordata resta la migliore soluzione.
  • L’arrampicata è un’attività pericolosa per natura, voi siete responsabili delle vostre azioni e decisioni.
  • La pratica dell’arrampicata in solitaria autoassicurata è riservata a utilizzatori esperti.
  • In arrampicata solitaria, in caso d’incidente con conseguente perdita di coscienza, il soccorso sarà difficile.
  • Indossare sempre il casco.
  • Non arrampicare in solitaria senza aver avvertito qualcuno della vostra destinazione e del vostro probabile orario di ritorno.
  • Nessuna soluzione è universale, dovrete essere in grado di adattare le nostre proposte tecniche alle difficoltà del terreno scelto.
  • La corretta comprensione delle soluzioni proposte richiede di aver consultato, compreso e assimilato le note informative di tutti gli attrezzi consigliati.
  • Gli attrezzi consigliati sono testati e omologati per un uso diverso da quello spiegato in questo manuale, le modifiche illustrate non sono ammesse e possono procurare inconvenienti anche gravi. Come le stesse case costruttrici, anche noi decliniamo ogni responsabilità per incidenti causati da un uso di questi attrezzi improprio.

La progressione in solitaria nell’ arrampicata artificiale

Chi ha esperimentato la scalata in solitaria conosce l’intensità delle emozioni che questo autarchico modo di arrampicare può trasmettere. Il tempo, la fatica, la concentrazione, tutto appare diverso e sembra davvero di entrare in un’altra dimensione. Se a queste impressioni ci uniamo la precarietà e la sensazione di aleatorio tipica dell’ artificiale moderno, il risultato sarà un ingaggio che vi farà sperimentare percezioni analoghe ad un viaggio psichedelico. Infatti non è rado incontrare alpinisti ormai perduti nel tunnel della dipendenza da tale sconveniente passione autolesionista.
Per salire una via di artificiale moderno in solitaria, occorrono consolidate capacità tecniche, una fortissima motivazione, un pizzico di follia e un notevole allenamento alla fatica (oltre al su detto autolesionismo). In generale possiamo dire che il connubio tra artificiale e solitaria è probabilmente il modo più faticoso e pericoloso di scalare una parete.
Rispetto alla solitaria assicurata su itinerari che si scalano in libera (o con tratti di artificiale classica), la solitaria in artificiale moderno praticamente mantiene gli stessi metodi di autoassicurazione.

I freni automatici autobloccanti.

Cominciamo con l’attrezzo fondamentale per la progressione in solitaria, il freno automatico autobloccante (o semplicemente freno autobloccante).
Anche se esistono attrezzi specifici come il SilentPartner o il Soloist, la quasi impossibilità di trovarli in commercio e l’ingombro, fanno si che oggi si preferisca l’utilizzo di freni autobloccanti derivati dall’ uso nel free-climbing, ovvero il GriGri modificato o il Cinch.
Nonostante questi ultimi siamo impiegati abbastanza comunemente nella solitaria assicurata, le case costruttrici considerano tale uso improprio e quindi declinano ogni responsabilità. Infatti, oltre a non essere omologati per la scalata solitaria, sia l’uno che l’altro hanno varie controindicazioni e, a dispetto di tutte le cautele possibili, resta un margine di rischio non calcolabile. Ma lo sappiamo tutti, l’alpinismo porta con se sempre un elemento di incognita, l’arrampicata artificiale ne aggiunge una quota e, infine, la solitaria completa l’avventura. Sta allo scalatore scegliere se rischiare o vivere sereno il proprio alpinismo ragionevole. Quindi cautela e pensateci cento volte prima di avventurarvi in scalate del genere, come scritto in precedenza, per l’arrampicata solitaria servono una fortissima motivazione e un pizzico di follia e non sta a noi incentivare la follia.

Ma torniamo a considerazioni puramente tecniche e meno filosofiche, e analizziamo i due attrezzi più utilizzati attualmente.
Il GriGri è il freno autobloccante più usato nell’ arrampicata solitaria dall’ inizio del nuovo millennio. La scoperta delle sue possibilità, alternative a quelle usuali, ha portato molti scalatori solitari ad alzare le pretese e osare di più. La differenza sostanziale tra il metodo tradizionale e l’utilizzo del GriGri (e in seguito del Cinch) è nello scorrimento della corda.
Con i vecchi sistemi, ovvero i nodi autobloccanti tipo prusik e marchand, c’era la complicazione di essere obbligati a darsi corda prima di affrontare un passaggio di arrampicata. Ciò comportava un lasco, vale a dire la corda lenta e abbondante: l’effetto più deterrente immaginabile per lo scalatore. Oltre a questo, il dover utilizzare ambedue le mani onde permettere al nodo autobloccante di scorrere lungo la corda, rendeva impossibile affrontare una serie di passaggi sostenuti senza trovare un ancoraggio a cui appendersi per effettuare la manovra. Sorreggersi ad un appiglio con una mano e tentare con l’altra di far scorrere il nodo lungo la corda è praticamente impossibile.
Purtroppo i progettisti della Petzl, casa costruttrice del GriGri, non potevano immaginare che la loro creazione avrebbe avuto un utilizzo così particolare e l’ attrezzo, per poter essere davvero funzionale, occorre di due sostanziali modifiche. Queste producono una manomissione che può, in casi eccezionali, diventare un pericolo serio.
La prima modifica è indispensabile per permettere alla corda di scorrere agevolmente. Consiste nella totale eliminazione dell’aletta triangolare che chiude il lato dove la corda entra, proprio a sinistra dell’ icona raffigurante l’ omino che scala. In caso di volo, tale aletta ha la funzione di impedire alla corda di finire sotto la leva nera, collegata alla camma di bloccaggio della corda da un supporto in acciaio di spessore relativamente sottile. La recondita conseguenza della modifica è quindi che, nella dinamica spesso convulsa di una caduta, il supporto possa ghigliottinare la corda malauguratamente finitaci sotto. Non siamo a conoscenza di incidenti dovuti a questo problema, ma la possibilità, se pur remota, c’ è.
Gli scalatori più prudenti hanno ovviato eliminando solo in parte questa aletta, ma lo scorrimento migliora solo parzialmente creando altri problemi, come il restare bloccati a metà di un passaggio difficile, magari con la protezione lontana.
La seconda modifica da effettuare, questa senza controindicazioni, è forare il risvolto che agevola il passaggio della corda in uscita, proprio sopra l’ icona della manina che tiene la corda. Il forellino occorre per far passare un cordino di pochi millimetri di spessore, da collegare ad un’imbragatura leggera alta, o pettorale. Questo accorgimento è indispensabile per tenere in posizione il GriGri, che altrimenti penzolerebbe inutile all’ imbrago.
Qualche scalatore preferisce non forare il risvolto ma il lato opposto, proprio sotto la punta della leva nera. La particolare posizione dell’intervento costringe però a limitare al massimo il diametro del foro, rendendolo appena sufficiente per introdurre un cordino sottile, meglio se metallico. Anche se in pratica non si intacca un punto strutturale del GriGri, occorre comunque bucare il metallo proprio accanto alla cerniera della camma. Se da un lato, questa variante alla seconda modifica agevola il posizionamento dell’attrezzo all’ imbrago, dall’ altro e sostanzialmente più invasiva.

Sia la modifica per far scorrere la corda che quella per tenere in posizione l’ attrezzo sono state superate con l’ utilizza del Cinch.
Rispetto al GriGri, questo freno bloccante automatico ha delle dimensioni più compatte, un peso ridotto, la cerniera della camma con un foro che sembra fatto apposta per mantenerlo nella posizione corretta e non esiste il rischio ghigliottina.
Anche il Cinch ha però le sue controindicazioni. La principale è la difficoltà nello sbloccaggio della camma che frena la corda dopo essere rimasti appesi.
Mentre con il GriGri, quando ci si ferma per un riposo (resting) e si riprende l’ arrampicata, generalmente l’ attrezzo scorre, con il Cinch capita spesso di non riuscire a ripartire se non dopo aver sbloccato la corda con la leva nera. Oltre a questo c’è il problema dell’ usura del piccolo cilindro di acciaio posizionato all’ uscita della corda, dove è l’ icona della manina che tiene la corda.
Questo piccolo cilindro è posizionato per migliorare la resistenza all’ usura da sfregamento della corda, è sufficiente però una corrosione appena percettibile e l’ efficienza del freno diminuisce. Nel free-climbing è un problema limitato ad un aumento di dinamicità, mentre nell’ arrampicata solitaria produce lo sgradevole effetto di non arrestare completamente lo scorrimento e dopo un volo o un resting, si continua inesorabilmente a scendere verso la fine della corda (a meno di non aggrapparsi a qualche ancoraggio o fare un prusik al volo.

Ci sono altre due controindicazioni, queste comuni ai due attrezzi.
La prima è che hanno bisogno di una strappo deciso per bloccare e quindi scivolare su una placca appoggiata potrebbe non essere sufficiente per fermare il volo. La seconda è l’eventualità, per fortuna inconsueta, che durante il volo la leva nera resti aperta a causa di urti involontari. E’ per ciò importantissimo controllare l’attrezzo per verificare che sia posizionato nel giusto verso, ovvero con la leva nera rivolta verso lo scalatore e senza fettucce o cordini che gli passino vicini abbastanza da rischiare di agganciarla.
Ambedue gli attrezzi vanno collegati all’ imbragatura con un moschettone a ghiera, meglio se simmetrico. Per far si che questi siano sistemati nel modo corretto, e relativamente al riparo da pericolosi agganci, il moschettone a ghiera non dovrà essere agganciato all’ anello di servizio ma direttamente nell’ alloggiamento dove ci si lega alla corda.
Gli attrezzi vanno tenuti in posizione collegandoli con una fettuccia regolabile ad un pettorale (va bene anche una fettuccia incrociata intorno alle spalle). Per Il GriGri tramite il cordino passato nel foro di una delle due modifiche, mentre per il Cinch direttamente nel foro centrale costituito dalla cerniera. La fettuccia deve essere regolabile per permettere di tirare il giusto gli attrezzi, in modo che non abbiano gioco e rimangano stabili durante l’uso.

Il t-block

Una difficoltà da superare per avere un freno autobloccante ben scorrevole, è il peso della corda in uscita dall’ attrezzo. A proposito di ciò, una scuola di pensiero consiglia di portare con se la corda sistemata in uno zaino, ma il peso aggiuntivo fa si che questo metodo sia utilizzabile soltanto per scalate facili, meglio se necessitano di poco materiale per proteggersi (vie attrezzate). Per le nostre esigenze è preferibile alleggerire il peso della corda in uscita dal GriGri/Cinch appendendone un anello di circa 15/20 metri all’ imbragatura. Per tenere in posizione questo anello, e per poter recuperare corda con una sola mano, è molto utile il t-block.
Il t-blok è una minuscola maniglia per la risalita di emergenza sulla corda, ha in vantaggio di non pesare quasi nulla e di permettere allo scalatore solitario di recuperare relativamente con facilità la corda.
Il t-block va agganciato ad un moschettone senza ghiera in uno dei portamateriale dell’ imbragatura. In genere su quello posteriore destro, in modo da recuperare corda con la mano destra (se non si è mancini, ovvio).
Questo sistema permette al freno autobloccante di scorrere senza intoppi ma bisogna fare attenzione a non restare con l’ anello di corda ormai strozzato nel bel mezzo di un passaggio, magari difficile.

Le fasi della progressione in solitaria assicurata

  1. Attrezzare un punto di sosta con gli ancoraggi predisposti alla tenuta anche verso l’alto (la sosta si può ribaltare in assenza di un compagno appeso o di un contrappeso consistente). Autoassicurarsi alla sosta

  2. Appendere il sacco da recupero in modo da utilizzarlo come contrappeso. Nell’ eventualità di assenza del sacco, o di un peso trascurabile di questo ultimo, adoperare un dissipatore a frizione.

  3. Servirsi un moschettone a ghiera per legare la corda con un nodo delle guide con frizione alla sosta. E, visto che non si sa mai, fare anche un contro nodo.

  4. Fissare la corda di servizio (a cui andrà agganciato il saccone da recupero) all’ imbragatura.

  5. Sistemare con cura le corde (quella per la sicurezza e quella di servizio) alla sosta, facendo attenzione che siano messe nel verso con cui saranno sollevate mentre si sale. Se c’ è posto in piano, ad esempio su un terrazzino o una cengia, sistemarle a terra, facendo attenzione che non si incaglino con qualche roccia o con lo zaino. In assenza di uno spazio adatto sistemarle in due sacche con l’apertura ampia (tipo quelle in tela dei supermercati), facendo sempre attenzione al verso e all’ assenza di ostacoli che possano impigliarle. Nel caso di assenza del saccone da recupero e della relativa corda di servizio, è possibile ordinare la corda in anelli lunghi circa 5 metri a cavallo dello zaino (appeso alla sosta come contrappeso).

  6. Posizionare il freno autobloccante (GriGri o Cinch) all’ imbragatura e metterlo nella posizione corretta utilizzando una imbragatura alta o pettorale (punto A). Inserirci la corda in modo che il capo legato alla sosta passi nell’ ingresso caratterizzato dall’ icona dell’omino che arrampica. Allungare l’autosicura al punto di sosta in modo da poter provare il GriGri/Cinch, verificando che sia perfettamente montato e funzionante.

  7. Utilizzando il capo della corda che esce dal freno autobloccante, fare un anello di circa 15/20 metri e inserirlo in un t-block, agganciato all’ imbrago in un posto comodo da raggiungere. Provare se il verso di scorrimento della corda nel t-block sia quello giusto (punto B).

  8. Sistemare tutto il materiale necessario alla scalata sull’ imbragatura, indossare il casco e le scarpette di arrampicata (se c’è della scalata in libera), agganciare all’ imbragatura la corda di servizio alla quale è legato il saccone da recupero, togliere l’autosicura e iniziare la salita.

  9. Mentre si arrampica fare attenzione che tutto funzioni alla perfezione. Verificare che la corda scorra bene nel freno autobloccante e non si aggrovigli al punto di sosta sottostante. Controllare che l’ anello di alleggerimento passato nel t-block non si esaurisca o che tenda ad incastrarsi su qualche asperità rovescia della roccia.

  10. Quando si inizia ad essere alti, verificare che la corda non abbia superato il punto di equilibrio tra il tratto che sale dalla sosta e quello che esce dal freno autobloccante e torna verso il basso, ancora non utilizzato. In genere si sente una particolare leggerezza nell’ attrito della corda, è il segno che questa comincia a pesare più dalla parte che sale allo scalatore. Il rischio è che la corda inizi a scivolare indietro, formando un lasco preoccupante e spesso inavvertito. Per evitare questo inconveniente consigliamo di frazionare il tiro di corda direttamente sul moschettone di qualche ancoraggio tramite un nodo a mezzo barcaiolo. Non utilizzare cordini con nodi autobloccanti (tipo prusik), in caso di volo l’ancoraggio sarebbe sollecitato in modo statico, mentre se si utilizza un mezzo barcaiolo (fattibile anche con una sola mano) si fraziona il tiro ma la sollecitazione sull’ ancoraggio resta quasi nulla.

  11. Quando si passa la corda in una protezione appena messa, fare attenzione ad utilizzare il lato che arriva dalla sosta, prima di entrare nel freno autobloccante.

  12. Nella scalata in solitaria la corda resta fissa ed è lo scalatore che sale lungo essa, quindi non ci sono problemi di attrito e si possono passare i rinvii sugli ancoraggi senza preoccuparsi che siano sfalsati, fuori dalla verticale, lunghi o corti. Questa caratteristica consente di risparmiare sul materiale usando anche un solo moschettone per ogni protezione e permette di realizzare tiri lunghi anche come tutta la corda. In pratica, se si utilizza una corda da 70 metri a volte è possibile concatenare anche due lunghezze a patto che il materiale sia sufficiente.

  13. Al termine del tiro di corda attrezzare un punto di sosta con le stesse caratteristiche di quello sottostante. Mettersi in autosicura, fissare la corda di servizio alla sosta, sganciarsi dal freno autobloccante e girarne il verso, in modo da utilizzarlo come discensore. Scendere lungo lo stesso capo di corda per mezzo del quale si è saliti.

  14. Se il tiro e verticale è possibile smontare degli ancoraggi mentre si scende, altrimenti fare attenzione a non togliere quelli utili per risalire successivamente senza dover fare pendoli esagerati.

  15. Tornati al punto di sosta sottostante mettersi in autosicura e fare un asola sulla corda di servizio. Collegare all’ asola il saccone da recupero e sganciarlo. Se necessario farlo pendolare tramite un cordino sottile lungo almeno una quindicina di metri fino a quando sarà sotto la verticale della sosta superiore. Per questa manovra è possibile utilizzare la corda di servizio, se ne avanza. Non liberare il cordino o l’avanzo della corda di servizio, ma mantenerli legati all’ imbragatura, potrebbe servire per sganciare il saccone da recupero se incastrato. Nel caso la lunghezza di corda sia abbastanza strapiombante e non presenti asperità tali da rischiare di incagliare il saccone da recupero, salire con le jumar, pulire il tiro e, arrivati alla sosta superiore, autoassicurarsi e recuperare il saccone. Se invece c’è la possibilità concreta che il saccone avrà difficoltà a scorrere verso l’alto, occorre armarsi di pazienza e spirito di sacrificio e risalire con il saccone legato all’imbragatura. E’ questa una delle eventualità più devastanti della scalata in solitaria su una bigwall, occorre forza, resistenza alla fatica e grandi capacità autolesioniste. Mentre si risale la corda con il saccone appeso si possono avere visioni mistiche, allucinazioni e più comunemente collassi da sfinimento.

  16. Nell’ eventualità che si abbiano ancora delle forze residue e le motivazioni non siano scemate durante la salita del primo tiro, continuare imperterriti sulla lunghezza di corda successiva.

Uno strappo con Twight

Twight

Per ritagliarti i tuo spazio, in un mondo dominato dalla Gravità, devi impegnarti sul serio. Devi essere bravo nella disciplina che ti sei scelto. Là fuori regna la Meritocrazia, e la forza di gravità è la commissione esaminatrice. Inconsistenza, incompetenza, e menzogne: la terra là sotto la fa breve con tutte le cose del genere. Se non ti fermi da te, ci penserà lei a farlo.

Mark Twight, un pazzo scatenato: davvero lontano dall’iconografia classica dell’alpinista top: uno che tentava la Rupal Face sul Nanga Parbat con le cuffie e ascoltando heavy metal e new wave.
Questo brano è il più efficace del suo libro Confessioni di un serial climber e in certi passi dice delle cose davvero crude.

 

Le classiche

Spigolo Giallo inverno

Ognuno di noi ha la propria lista di arrampicate fatte e degli obiettivi da scalare e le vie che non potremo mai sfiorare continuano a dominare la nostra fervente immaginazione.

Io continuo a prediligere le pareti che si stagliano verticali, voi forse amate prue di arenaria dure come la selce illuminate dal sole in mezzo al bosco, o fili di ghiaccio sottili come una ragnatela che venano i dirupi ad una certa altitudine, o corte pareti a strapiombo con gli appigli segnati di magnesio ai bordi della strada, o interminabili processioni di fessure e spigoli su perfette dorsali di granito alpino. Le classiche sono la realizzazione dei nostri sogni, che siano dieci movimenti perfetti o dieci giorni di sforzo sublime, ognuna incarna una commistione quasi impossibile da descrivere di bellezza, di sfida e di storia. Sono la battaglia interiore fra dubbio, paura e desiderio e sono anche la quiete quando si avvolge la corda alla fine della giornata, condividendo uno sguardo soddisfatto col compagno fidato.

Le classiche ci connettono direttamente alla ricca storia della nostra cultura condivisa, sempre in evoluzione. Ci tornano alla memoria la logica e l’eleganza della “goccia d’acqua” di Emilio Comici con il suo capolavoro sullo Spigolo Giallo a Lavaredo, la costanza e determinazione di Warren Harding con il Nose sul Capitan e tante altre ancora…
Il meglio del meglio, ognuna un capolavoro, un rilevante esempio di una disciplina, una via che chiede di essere scalata.

In altre parole una classica.

Michael Kennedy sul catalogo Patagonia

Contrasti

Contrasti

C’è il ritmo regolare del cammino, c’è il respiro profondo che riempie i polmoni, c’è il battito del cuore nelle tempie e c’è il sudore dove sei coperto. Ci sono i panorami amplissimi quando ti fermi, ci sono le linee immaginarie delle vie sulle pareti e c’è l’esaltazione quando termina la camminata.

C’è il desiderio quando guardi la parete, c’è l’attesa impaziente all’attacco della via, ci sono i timori sospesi che scompaiono e c’è la fiducia che cresce. C’è il rumore degli attrezzi all’imbrago, ci sono i comandi secchi e chiari e c’è la sensazione mista di sollievo e soddisfazione quando arrivi in sosta.

Ci sono le prospettive vertiginose dei punti esposti, ci sono i profili verticali delle pareti ai lati, c’è l’azzurro intenso del cielo che si staglia sul grigio della roccia e c’è l’odore fresco della neve. C’è la luce che illumina con angoli acuti pareti e prati, c’è l’aria fredda e ferma dove sei in ombra e c’è il sole che quando arriva scalda.

Questo è quello che amo della montagna.

Non amo le partenze di notte, gli zaini che pesano sulle spalle. Non amo l’ansia che il tempo cambi, i sassi che cadono, i fulmini vicini, l’acqua che ti entra nel collo e esce dalle caviglie. Non amo la sete infinita, quando fa caldo e sembra che dalla via non uscirai mai.

Non amo le placche compatte e sprotette, la roccia friabile, gli appigli che ti restano in mano. Non amo la paura di volare, il dubbio di andare fuori via, non amo la corda che non viene nelle doppie, le discese interminabili peggio delle salite.
Non amo la vetta, la fine della via, la pausa in attesa di altre incognite.

Per cui coi primi pensieri mi entusiasmo, ma i secondi sempre mi opprimono di ansia e continuo ad oscillare come un pendolo fra queste emozioni contrastanti.

(libero adattamento da un post di Buzz)

Obiettivi impossibili

VALLUM-1200x640

“Al di là dell’Eufrate, cominciava per noi il paese dei rischi e dei miraggi, le sabbie ove si affonda, le strade che finiscono senza metter capo in nessun luogo. Il minimo rovescio avrebbe prodotto come risultato una scossa al nostro prestigio, tale che qualsiasi catastrofe avrebbe potuto derivarne; non si trattava soltanto di vincere, ma di vincere sempre, e in questa impresa si sarebbero logorate le nostre forze. Già l’avevamo tentata una volta: pensavo con orrore alla testa di Crasso, lanciata di mano in mano come una palla durante una rappresentazione delle “Baccanti” di Euripide, data da un re barbaro con un’infarinatura di ellenismo la sera d’una vittoria su di noi. Traiano sognava di vendicare quella antica sconfitta; io, soprattutto di far sì che non si ripetesse. Prevedevo l’avvenire con sufficiente esattezza: non è impossibile, in fin dei conti, quando si conoscono in gran parte gli elementi del presente: prevedevo qualche vittoria inutile, che avrebbe attirato troppo avanti le nostre armate, pericolosamente sottratte ad altre frontiere; l’imperatore in punto di morte si sarebbe coperto di gloria e su di noi, che dovevamo vivere, vedevo pesare il compito di risolvere tutti i problemi e rimediare a tutti i mali.”

Sull’onda della moda dei vari corsi motivazionali e di una cultura che si è andata affermando negli ultimi anni in certi ambienti lavorativi, noto una diffusa tendenza a pensare che tutto debba essere considerato possibile, perché la riuscita di qualsiasi impresa dipende solo da noi stessi e dalla nostra motivazione. Porsi dubbi sulla riuscita o sulla possibilità di una qualsiasi attività viene considerato come “darsi degli alibi” per un fallimento, che arriverà perché non ci si è creduto abbastanza: noi soli siamo gli unici fautori del nostro successo.

Ho sempre diffidato di questa concezione, perché sono sempre stato convinto che ciò che dipende esclusivamente da noi è solo la determinazione a impegnarsi, ma spesso la riuscita di una iniziativa è influenzata in larga parte da elementi che sono fuori dal nostro controllo, nel lavoro, ma direi in ogni aspetto della vita. Questo concetto è ben noto in altri campi, ad esempio nello sport, dove si è sempre consci che la differenza fra vittoria e sconfitta a volte è davvero molto labile, oppure in alpinismo, dove occorre sempre ponderare il proseguimento di un’ascensione o la ritirata in base alle condizioni soggettive ed oggettive. Al contrario in quegli ambienti a cui mi riferivo viene costantemente trascurato e sepolto sotto una serie infinita di aforismi e frasi motivazionali.

Credo che a volte addirittura ci si trova di fronte a obiettivi impossibili e la cosa più ammirevole in questi casi è quella di riconoscere una simile situazione e evitare di spendere tempo e risorse, o anche cose di più valore, in iniziative al di là della propria portata.
Un brano che esprime in maniera mirabile questa situazione è quello che ho riportato, tratto dalle Memorie di Adriano, e in cui il protagonista, che presto sarà un grandissimo imperatore, e che in quel momento è al seguito del più grande imperatore romano di sempre, si rende conto di una simile situazione e capisce di doverla evitare: rileggo spesso questo brano e vengo sempre ammaliato dalla grande lucidità dell’analisi priva di qualsiasi preconcetto, quando mi capita di venire sommerso dagli aforismi e dagli slogan di cui parlavo sopra.

Emozioni

40-1

Quando giri il versante della gola di Frasassi a un certo punto scorgi un vero e proprio scherzo di natura, il grande tetto che taglia la parete gialla sulla destra della Gola.

61

In quel momento se pensi che devi passare la sopra, per l’impressione quasi la voglia di fare la via un po’ ti passa.

Poi quando sei in quel tiro, dopo i primi passaggi esposti e sostenuti, quando cominci a prendere fiducia, capisci che stai vivendo un momento di grande emozione che ti porterai dentro molto a lungo.
Una foto cosi te lo fa ricordare in maniera immensamente più vivida e ti fa rivivere quell’emozione anche con gli occhi e non solo con la mente.

E come ho già scritto, è per il ricordo che si scalano le montagne.

Domande senza risposta

img_1017
Qualche giorno fa Facebook mi ha proposto come ricordo il post del video che avevo fatto sulla salita della Detassis alla Brenta Alta, una via che avevo inseguito per anni.
Al di là delle immagini il punto del post era una questione su cui mi interrogo da anni e ultimamente sempre di più: perché questa attività è causa di ansie e timori continui?
Perché di fatto il godimento che ne traggo è quello “a posteriori”?
Perché è più forte la soddisfazione di esserci stato, di essere stato all’altezza e a volte di non doverlo fare più, piuttosto che il godimento di un’attività che amo?

Tanti dicono che in un’attività ludica ci si dovrebbe rilassare e razionalmente concordo con loro. Però personalmente non ci sono mai riuscito, perché poi mi incastro sempre in questi stessi meccanismi da anni. Se vado a camminare senza obiettivi alpinistici, sono rilassato e sereno, se invece ci vado per “realizzare” scattano nella mia testa tutte quelle trappole e paranoie. Però non riesco neanche a rinunciare, perché poi sento una mancanza fisica, più che dell’attività in se, delle sensazioni posteriori, di quella soddisfazione senza limiti dei giorni dopo o del ricordo di avere ottenuto quello a cui si mirava.

E’ pazzesco, ma è così: e non è neanche legato solo alla montagna, perché in falesia è lo stesso e lo raccontavo nel brano dell’urlo mancato.
Che diavolo è? Ossessione, ansia da prestazione, dipendenza?
Boh, non lo so, ma intanto cerco di esprimere questo stato d’animo.